Archivio | luglio, 2023

Il titolo datelo voi.

11 Lug

Ieri, o almeno io l’ho visto ieri, girava su LinkedIn un video molto interessante su molestie e abusi in agenzia, nel quale si portava l’attenzione sulla “normalizzazione” di certi atteggiamenti. Ovvero, i giovani che entrano nelle agenzie rischiano di essere sottoposti a un modello distorto che alla lunga potrebbe essere normalizzato e interiorizzato. (Siate clementi, non sono riuscita a ritrovare il video per citare le parole esatte, soffermatevi sul concetto. Ok?)

Praticamente è quello che dico nella mia intervista quando mi chiedono come mai non abbiamo mai denunciato certi atteggiamenti a tempo debito, invece di continuare a subire.

Per citarmi: “Sono cresciuta con un modello errato, secondo cui era normale sopportare questi soprusi, altrimenti si perdeva il posto di lavoro. Avendo subito episodi del genere in varie agenzie, sono arrivata a credere di essere io il problema. Ho pensato di essere sbagliata…”

Ora, la sintesi della mia intervista non sviluppa tutto il concetto, dato che riassume 2 ore di telefonata in 2 minuti di lettura, ma secondo voi di cosa si sta parlando?

Molti, non tutti per fortuna, hanno preso le mie parole solo come uno sfogo fine a se stesso, questo per non aver fatto nomi. Sono stata accusata di voler sollevare polveroni e, la peggiore di tutte, di voler solo fare pubblicità al mio blog.

Sul serio non vi interessa più sapere cosa ha da dire una persona? Per un momento mi sono vergognata per aver raccontato la mia esperienza solo ed esclusivamente per dire alle persone: “Ehi voi, là fuori, se vi state sentendo così, sappiate che non è normale”.

E poi, due giorni dopo, applausi sotto a un video che portava l’attenzione proprio sull’argomento.

Non voglio trarre conclusioni sbagliate, illuminatemi voi.

Quello che dovresti sapere prima di rilasciare una intervista.

8 Lug

Sapevo che con l’intervista su Repubblica mi sarei messa da sola alla gogna mediatica. Lo avevo messo in conto.

Ero pronta ad affrontare i protozoi da tastiera che a malapena sono in grado di comporre un periodo sconnesso sbattendo la testa sui tasti. Ero pronta ad affrontare i boriosi annoiatori seriali che con la sola imposizione dei loro post ammazzano te e famiglia sotto il peso delle loro parole. Ero persino pronta a fare i conti con le code di paglia che stavo aspettando al varco con la mazza ferrata.

Ma non avrei MAI MAI MAI MAI MAI MAI immaginato di dovermi difendere dai “giornali?” che prendono le tue parole, rubano le tue foto dai social e inventano una storia tutta loro.

Possono farlo? Così pare.

Cosa che non mi è stata detta, quindi occhio quando rilasciate un’intervistare, la vostra “deposizione” può essere utilizzata da terzi. Già, il giornale che vi intervista può rendere il contenuto disponibile a terzi, a patto che questi citino la fonte. Ma se questi terzi riscrivono il testo, o parte del, ed estrapolano citazioni mai dette, la testata “madre” non è tenuta a risponderne. La responsabilità è di chi ha rielaborato la notizia, perciò, per dirlo in francese: “te la piji ar culo”.

Questo per dire che a parte l’intervista che trovate esclusivamente sul mio canale LinkedIn, tutte le altre in giro per la rete, che non citerò per non contribuire alla diffusione della monnezza, non sono state autorizzate e hanno utilizzato le mie parole in modo falso e tendenzioso. Non vi dico poi la mia immagine.

In particolare uno di questi giornaletti autorevoli, mi mette in bocca un’accusa gravissima che io non ho mai mosso verso nessuno.

A questo punto vedo già i commenti che diranno ” Ehhhh ma tu veramente non lo sapevi?”

No, mi hanno intervistata milioni di volte, per ragioni diverse, e non mi è mai capitato nulla del genere.

Da oggi in poi, tutto quello che ho da dire lo dirò qui. Così se qualcuno prende qualcosa, io poi lo prendo a calci nello stesso posto in cui io me la sono pijata.

Se trovate errori e refusi siate clementi. Sono letteralmente 30 ore che non dormo per rispondere a tutti i commenti sul mio conto.

“Eppur si muove” qualcosa.

5 Lug

Sono molto contenta di quello che sta succedendo in questi giorni nell’ambito della comunicazione, soprattutto perché lo scandalo si sta estendendo oltre i soli fatti di natura sessuale.

Già, perché gli abusi sessuali, gravissimi sia chiaro, sono solo l’apice di un sistema malato che caratterizza certi ambienti di lavoro. Ovviamente la cosa non si limita alle agenzie pubblicitarie, ma questa è la realtà che conosco meglio e dunque quella di cui posso parlare.

Qualche giorno fa ho trovato in rete l’intervista a un “guru” della pubblicità che ostentava, magari anche enfatizzando le situazioni, la sua soddisfazione nell’intimidire i sottoposti. Percepivo, ma questa è una mia sensazione e non un’accusa, del sadismo nelle sue parole.

Ecco io non riesco a capire come si possa desiderare di farsi apprezzare e ricordare per questo motivo, ma pare funzioni. Infatti, nell’intervista veniva sottolineato come il pubblicitario in questione fosse comunque molto amato.

Che sia vero o no, non stento a crederci. E sapete perché? Perché molto spesso chi è dall’altra parte, ovvero chi vuole a tutti i costi emergere e lavorare nell’ambiente pubblicitario tende a “normalizzare” certe situazioni, cercando di accettarle. Almeno, ai miei tempi era così. Spesso, ci si sente in difetto per non riuscire a farsi andar giù certi soprusi e ancora più spesso ci si sente in colpa quando si viene redarguiti per essersi ribellati.

Ora io sono fuori da tali ambienti, già da un po’, ma vorrei, con tutto il cuore, che non si spegnesse questo movimento e che aiutasse le nuove generazioni di pubblicitari a creare un luogo di lavoro migliore dove non si accettano le cose per terrore.

Spero davvero che le persone continuino a condividere le loro esperienze e magari facciano strizzare un po’ le 🍑 a quei personaggi che per 20, 30 o 40 anni hanno fatto strizzare quelle di migliaia di giovani pubblicitari la cui unica colpa era quella di voler fare QUEL lavoro.

Avanti così, senza paura.

Non siamo noi ad aver fatto qualcosa di male. Ora lo so.

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