Il titolo datelo voi.

11 Lug

Ieri, o almeno io l’ho visto ieri, girava su LinkedIn un video molto interessante su molestie e abusi in agenzia, nel quale si portava l’attenzione sulla “normalizzazione” di certi atteggiamenti. Ovvero, i giovani che entrano nelle agenzie rischiano di essere sottoposti a un modello distorto che alla lunga potrebbe essere normalizzato e interiorizzato. (Siate clementi, non sono riuscita a ritrovare il video per citare le parole esatte, soffermatevi sul concetto. Ok?)

Praticamente è quello che dico nella mia intervista quando mi chiedono come mai non abbiamo mai denunciato certi atteggiamenti a tempo debito, invece di continuare a subire.

Per citarmi: “Sono cresciuta con un modello errato, secondo cui era normale sopportare questi soprusi, altrimenti si perdeva il posto di lavoro. Avendo subito episodi del genere in varie agenzie, sono arrivata a credere di essere io il problema. Ho pensato di essere sbagliata…”

Ora, la sintesi della mia intervista non sviluppa tutto il concetto, dato che riassume 2 ore di telefonata in 2 minuti di lettura, ma secondo voi di cosa si sta parlando?

Molti, non tutti per fortuna, hanno preso le mie parole solo come uno sfogo fine a se stesso, questo per non aver fatto nomi. Sono stata accusata di voler sollevare polveroni e, la peggiore di tutte, di voler solo fare pubblicità al mio blog.

Sul serio non vi interessa più sapere cosa ha da dire una persona? Per un momento mi sono vergognata per aver raccontato la mia esperienza solo ed esclusivamente per dire alle persone: “Ehi voi, là fuori, se vi state sentendo così, sappiate che non è normale”.

E poi, due giorni dopo, applausi sotto a un video che portava l’attenzione proprio sull’argomento.

Non voglio trarre conclusioni sbagliate, illuminatemi voi.

Quello che dovresti sapere prima di rilasciare una intervista.

8 Lug

Sapevo che con l’intervista su Repubblica mi sarei messa da sola alla gogna mediatica. Lo avevo messo in conto.

Ero pronta ad affrontare i protozoi da tastiera che a malapena sono in grado di comporre un periodo sconnesso sbattendo la testa sui tasti. Ero pronta ad affrontare i boriosi annoiatori seriali che con la sola imposizione dei loro post ammazzano te e famiglia sotto il peso delle loro parole. Ero persino pronta a fare i conti con le code di paglia che stavo aspettando al varco con la mazza ferrata.

Ma non avrei MAI MAI MAI MAI MAI MAI immaginato di dovermi difendere dai “giornali?” che prendono le tue parole, rubano le tue foto dai social e inventano una storia tutta loro.

Possono farlo? Così pare.

Cosa che non mi è stata detta, quindi occhio quando rilasciate un’intervistare, la vostra “deposizione” può essere utilizzata da terzi. Già, il giornale che vi intervista può rendere il contenuto disponibile a terzi, a patto che questi citino la fonte. Ma se questi terzi riscrivono il testo, o parte del, ed estrapolano citazioni mai dette, la testata “madre” non è tenuta a risponderne. La responsabilità è di chi ha rielaborato la notizia, perciò, per dirlo in francese: “te la piji ar culo”.

Questo per dire che a parte l’intervista che trovate esclusivamente sul mio canale LinkedIn, tutte le altre in giro per la rete, che non citerò per non contribuire alla diffusione della monnezza, non sono state autorizzate e hanno utilizzato le mie parole in modo falso e tendenzioso. Non vi dico poi la mia immagine.

In particolare uno di questi giornaletti autorevoli, mi mette in bocca un’accusa gravissima che io non ho mai mosso verso nessuno.

A questo punto vedo già i commenti che diranno ” Ehhhh ma tu veramente non lo sapevi?”

No, mi hanno intervistata milioni di volte, per ragioni diverse, e non mi è mai capitato nulla del genere.

Da oggi in poi, tutto quello che ho da dire lo dirò qui. Così se qualcuno prende qualcosa, io poi lo prendo a calci nello stesso posto in cui io me la sono pijata.

Se trovate errori e refusi siate clementi. Sono letteralmente 30 ore che non dormo per rispondere a tutti i commenti sul mio conto.

“Eppur si muove” qualcosa.

5 Lug

Sono molto contenta di quello che sta succedendo in questi giorni nell’ambito della comunicazione, soprattutto perché lo scandalo si sta estendendo oltre i soli fatti di natura sessuale.

Già, perché gli abusi sessuali, gravissimi sia chiaro, sono solo l’apice di un sistema malato che caratterizza certi ambienti di lavoro. Ovviamente la cosa non si limita alle agenzie pubblicitarie, ma questa è la realtà che conosco meglio e dunque quella di cui posso parlare.

Qualche giorno fa ho trovato in rete l’intervista a un “guru” della pubblicità che ostentava, magari anche enfatizzando le situazioni, la sua soddisfazione nell’intimidire i sottoposti. Percepivo, ma questa è una mia sensazione e non un’accusa, del sadismo nelle sue parole.

Ecco io non riesco a capire come si possa desiderare di farsi apprezzare e ricordare per questo motivo, ma pare funzioni. Infatti, nell’intervista veniva sottolineato come il pubblicitario in questione fosse comunque molto amato.

Che sia vero o no, non stento a crederci. E sapete perché? Perché molto spesso chi è dall’altra parte, ovvero chi vuole a tutti i costi emergere e lavorare nell’ambiente pubblicitario tende a “normalizzare” certe situazioni, cercando di accettarle. Almeno, ai miei tempi era così. Spesso, ci si sente in difetto per non riuscire a farsi andar giù certi soprusi e ancora più spesso ci si sente in colpa quando si viene redarguiti per essersi ribellati.

Ora io sono fuori da tali ambienti, già da un po’, ma vorrei, con tutto il cuore, che non si spegnesse questo movimento e che aiutasse le nuove generazioni di pubblicitari a creare un luogo di lavoro migliore dove non si accettano le cose per terrore.

Spero davvero che le persone continuino a condividere le loro esperienze e magari facciano strizzare un po’ le 🍑 a quei personaggi che per 20, 30 o 40 anni hanno fatto strizzare quelle di migliaia di giovani pubblicitari la cui unica colpa era quella di voler fare QUEL lavoro.

Avanti così, senza paura.

Non siamo noi ad aver fatto qualcosa di male. Ora lo so.

#metoo

Il podio degli incompresi.

21 Giu

Non ho mica capito perché ALCUNE (leggete bene prima di iniziare la lapidazione, ho detto ALCUNE) persone munite di prole fanno a “gara” per sentirsi più incompresi di quelli senza prole.

Certo, assolutamente vero, io non posso capire cosa significhi avere un figlio. Figuriamoci due. Già, perché quelli dotati di doppia progenie ci tengono a specificare che i monopargolo non possano minimamente comprendere la loro esistenza.

I migliori sono quelli che viaggiano a botte di meme sui social. Se li appuntano in bacheca come fossero medaglie da veri eroi di guerra. Una volta ne ho visto uno che diceva qualcosa tipo:

“Quando una (sì, UNA) senza figli ti dice di essere stanca dopo una giornata di lavoro.”

Come immagine non poteva mancare il Di Caprio beffardo e sbevazzante di Django. Presente?↙️

La cosa assurda è che io credo a queste persone. Veramente ragazzi, io vi credo quando dite che siete stravolti perché avete un figlio da gestire, o due, anche se non lo posso capire. Perché lo so che non lo posso capire.

Però, ogni tanto, ricordatevi che esattamente come io non posso capire le vostre vite, perché non le vivo, forse voi non potete capire la mia. O quella di qualsiasi altra persona. Anche se non vi ricordiamo ad ogni conversazione “ah, tu non puoi capire”.

Quando arrivo a casa sfatta, perché ho insegnato pole dance tutto il giorno, con ogni muscolo dolorante, le articolazioni che esplodono e la voglia di morire senza nemmeno mangiare, nemmeno in quel caso mi sento di sminuire la persona che non ha avuto la mia routine dicendo “ah, tu non puoi capire”. E vi assicuro che nessuno può capire. Eppure non lo dico e faccio quello che fa chiunque altro: arrivo a casa, preparo la cena, rassetto e il tutto senza per forza aver il bisogno di sentirmi incompresa, povera e tapina.

Non vi dico poi quando facevo la pubblicitaria e lavoravo in ufficio con picchi di 14 ore. A volte mi venivano dei mal di testa esorbitanti. Ma che dico? Invalidanti, da farmi salire la febbre. Passavo il weekend a letto cercando di recuperare la calma cerebrale, eppure, nemmeno in quei casi, ho mai detto a qualcuno “ah, tu non puoi capire”, nemmeno alle persone che dicevamo “beate te che lavori in ufficio, non come me in piedi tutto il giorno”.

E non l’ho mai detto nemmeno in quegli anni dove facevo dalle 9:00 alle 16:30 in ufficio e dalle 17:00 alle 21:30 in palestra per insegnare pole dance. Nemmeno lì ho mai detto a nessuno “ah, tu non puoi capire”. E vi assicuro che fare due lavori in cui uno ti spacca il cervello e l’altro il corpo è una cosa che veramente non si può capire.

E sapete perché? Perché nessuno può capire la vita di un altro. Nemmeno avendo la stessa vita. Perché due persone con vite identiche possono vivere la situazione in maniera completamente differente per mille motivi, così come due madri che hanno un bambino. Magari una delle due ha anche un lavoro, ma magari quella col lavoro ha anche un valido aiuto che quella senza il lavoro non ha. E allora chi sta peggio? Chi non può capire chi? Insomma non ha veramente senso questa crociata che vi vede impegnati in una gara per aggiudicarvi il premio di “essere umano più incompreso dell’anno”.

La vita, per quanto meravigliosa, è già difficile così, senza fare a gara a chi è più sfigato. Pensateci la prossima volta prima di dire “ah, tu non puoi capire”. Perché nemmeno voi potete. E soprattutto ogni tanto ricordate che siete voi ad aver scelto le vostre vite, quindi non sono gli altri a dover stendere il tappeto rosso. Non siete reduci di guerra.

P.s. Per fortuna ci sono anche un sacco di persone sane, e molte sono nella mia vita, che non muoiono dalla voglia di immolarsi a ogni conversazione. Ho molti amici sereni con figli, lavoro e figli, pole dance e figli, pole dance, lavoro e figli. E tutti ci capiamo benissimo con solo sguardo, senza aver bisogno di mortificarci a vicenda.

Libretto distruzioni.

27 Mag

Beso: figo il nuovo microonde! Ti dice perfino quello che devi fare…

Selvaggia: ehi, nessuno può dirmi quello che devo fare!

Tratto dalle conversazioni casalinghe tra me e mio marito, del quale un giorno sentire parlare al telegiornale: o perché lo hanno santificato o per l’esatto contrario. Dipende se tiene botta.

Puttana puttana, puttana la maestra.

9 Mag

Avevo una maestra delle elementari molto violenta. Probabilmente la stessa di Tricarico, o comunque della stessa pasta.

Avevo talmente paura di lei che cercavo di rigare drittissimo. (In quinta, a due mesi dall’esame, mi venne una psoriasi devastante da stress)

Ogni giorno andavo a scuola con la paura di prendere uno sganassone. Per anni ho aspettato quella mano in faccia, finché, un giorno, lo sganassone è arrivato. Quel giorno sono morte un sacco di cose, tipo ogni possibile relazione con la matematica.

Mi trascino ancora un sacco di traumi grazie alla maestra delle elementari che descriverò come un troll dalle mani tozze, unghie smaltate e anellazzi d’oro che le bloccavano la circolazione delle dita facendo il classico effetto salama da sugo. 

A lei devo moltissimi dei miei atteggiamenti odiosi, tipo l’insofferenza. Da lei ho appreso che se qualcuno non ti capisce al volo, è assolutamente giusto e giustificato scattare. Quando noi non capivamo le spiegazioni lei si imbufaliva e, se andava bene, ci trattava come coglioni, se andava male volavano sberle, tirate di orecchie e, occasionalmente qualche calcio. Sì, calcio. 

Un giorno fece così male a un bambino, con un calcio, che per l’occasione si scomodarono persino i genitori. (Era uno di quei bimbi iperattivi che oggi sono particolarmente protetti, super intelligente e che faceva fatica a stare seduto, a trattenere la sua esuberanza e, ahimè, il suo buon umore).

Già, fu un’occasione, perché nonostante noi poveri allievi terrorizzati provassimo a parlare ai nostri genitori della politica del terrore di questa donna e delle continue violenze verbali e fisiche, nessuno si sognava di intervenire.

Quindi quella volta del calcio deve essere stata veramente grave. Non so, o meglio non ricordo, se fu più o meno grave di quella volta che per poco non staccò l’orecchio di un bambino. E non lo dico per esagerare, si “scollò” il lembo di pelle che unisce la cartilagine del padiglione con la base del cranio.

Grazie a lei ho sviluppato un odio profondo verso chi mastica le gomme, chi trascina le sedie, chi fa rumore quando sposta un oggetto, chi tossisce o starnutisce rumorosamente, chi parla ad alta voce e verso chi respira in generale.

Per lei, qualsiasi atteggiamento di questo tipo era da ricondursi a un unico fatto: il fatto di essere bestie. Sento ancora la sua voce, mentre entra incazzata in aula già alle 8 del mattino. Ce lo diceva così tante volte che non ci sembrava nemmeno un insulto, ma un semplice dato di fatto.

Alle volte mi scorgo in atteggiamenti che mi rendo conto aver ereditato da lei, perché per quanto mi disgustino, rappresentano per me la certezza di ricevere approvazione.

Aveva anche un cognome che già diceva quale dito in culo sarebbe stata: tipo, maestra Stizzini (nome inventato per privacy, giusto per farvi capire come suonava pertinente e calzante con la sua personalità).

Quando eravamo fortunati era mister Hyde, sì la creatura mostruosa, quando non lo eravamo era semplicemente se stessa in tutta la sua forma ancora più terrificante.

C’è di buono che quella paura così atavica suscitata da quella donna mi ha portata a studiare così tanto alle elementari da vivere di rendita fino all’università. Già, ma a che prezzo?

Nessun essere vivente dovrebbe vivere nella paura, nemmeno una paura stupida come quella di una maestra pazza che ti prende a buffi perché non capisci le divisioni.

Perché alla fine dei conti, quella paura, non è tanto stupida. Si radica e innesca come risposta la violenza e ogni volta che avrai paura, reagirai con violenza. E questo solo perché il tuo modello formativo ti ha fatto crescere legittimandola e dimostrandoti che chi non ti compiace va annientato. 

Scrivo questo post perché non ho mai avuto il coraggio di affrontare questo argomento, non per paura, ovviamente, ma perché veniva sempre sminuito dai “grandi”. E visto che adesso quella “grande” sono io, vaffanculo, voglio parlarne e dire che quello che la mia classe ha subito per cinque anni è stato devastante.

Ho dovuto fare un grandissimo lavoro su di me, per scardinare quelle convinzioni e ancora oggi sto lavorando per cercare di diventare una persona migliore. Almeno rispetto a lei.

Fortunatamente non sono una persona manesca, se no probabilmente risolverei tutto a pacchere pure io. 

C’è di buono che almeno dallo psicologo non cado quasi mai nel cliché:

“Mi parli di sua madre…”

Hai fatto la cacca?

28 Apr

Cominciavano sempre così le conversazioni tra me e la mia nonna materna. Lei era super interessata alla mia motilità intestinale, perché per lei ogni problema era da attribuirsi alla stitichezza.

Mal di testa? Non hai fatto la cacca. (Se invece l’avevi fatta di recente, poteva essere solo un’altra cosa: malocchio)

Insonnia? Non hai fatto la cacca.

Nervosismo? Non hai fatto la cacca.

Mal di pancia? Quello potrebbe anche essere un colpo di vento o un bicchiere d’acqua fredda.

Una volta, da ragazzina, piangevo come una fontana per una cotta e… chiese se avessi fatto la cacca.

All’epoca quella domanda mi dava fastidio, un misto tra imbarazzo e violazione della privacy. Ora capisco che dietro quella saggezza, apparentemente così popolare, c’era un fortissimo approccio psicologico.

Nella sua semplicità, mia nonna mi chiedeva se avessi espletato. Certo, fisicamente, ma pur sempre espletato. Aver fatto la cacca significava per lei aver digerito qualcosa, averlo elaborato e alla fine “superato”.

Pensateci un attimo, non è forse la sequenza per elaborare un trauma? Incassi un trauma e prima di riuscire ad accettalo, e di conseguenza a digerirlo, ci vuole un sacco di tempo. Poi occorre capacità per elaborarlo, ovvero “farne qualcosa”. Quel boccone, così faticoso da digerire, ormai è pronto per diventare altro e al termine, solo dopo aver preso il meglio da questa esperienza, per essere superato e allontanato. Non credo lei fosse consapevole di questa cosa, ma ci credeva veramente nel processo digestivo e nell’importanza di una corretta e abbondante evacuazione.

Ora, perché ripenso a una cosa di 30 anni fa? Primo, perché è tipico da parte mia ripensare e scrivere sempre di cose successe un milione di anni fa, come se io non avessi un presente, e secondo perché credo che i miei traumi siano ancora lì, in pancia, in attesa che qualcuno si accorga della stitichezza della mia anima.

Un po’ come faceva mia nonna con il mio intestino.

La morte non separa.

2 Apr

Tra le cose più belle successe nella mia vita, ci sono i pomeriggi passati a casa del mio amico d’infanzia A. Effe in cui non facevamo assolutamente nulla, se non baciarci fino allo sfinimento.

Era bello provare quell’amore profondo, anche se non ricambiato. Già, perché se da un lato c’ero io completamente innamorata di A. Effe, dall’altro c’era A. Effe completamente innamorato (e ricambiato solo a tratti) di Esse Z.
Ma a me realmente non importava più di tanto, perché alla fine i baci li prendevo io.

Lo script era sempre lo stesso. Dopo pranzo mi recavo a casa di A.Effe, che teneva sempre e accuratamente in penombra, e passavamo il pomeriggio, fino al ritorno di sua madre dal lavoro, sul divano a ridere, scherzare, sparlare di quei casi umani che avevamo come professori e, naturalmente, a baciarci con il trasporto che solo gli adolescenti conoscono.

Perché, parliamoci chiaro, agli adulti non piace più limonare. Almeno non come a quindici anni. Non si passano più ore intere bocca nella bocca e mani ovunque lasciando tutto il resto nel limbo a un passo dall’esplosione del cuore.

Come mai ci ripenso adesso a distanza di 25 anni? Perché è uno di quei pensieri felici dove ancora oggi amo rifugiarmi e perché più o meno in questo periodo di 22 anni fa A. Effe se ne andava via per sempre, con una cosa da dirmi che non saprò mai.

Il giorno prima che A. Effe lasciasse questo mondo ci eravamo incontrati per caso, stavo scendendo da un pullman per correre a prendere un altro pullman. Lui mi fermò per strada e mi disse che doveva parlarmi.
Io come al solito avevo fretta e la cosa peggiore è che ricordo perfettamente il perché della mia fretta. Vi assicuro che era una cosa di cui non mi fregava un cazzo. Ma dissi lo stesso “ora non posso, ci sentiamo”.

Forse per una volta volevo fosse lui ad aspettare me. Forse non volevo di nuovo perdermi in quegli occhi azzurri che non mi facevano dormire la notte o forse avevo solo l’acqua nel cervello.

Ma una cosa quel giorno l’ho capita: la morte non separa. È solo la vita a separare le persone.

Ciao, mio caro A. Effe
Ogni volta che compro i ravioli, ne mangio uno crudo. Come piaceva a te.
A me fa schifo, ma mi fa stare fottutamente bene.

40 volte primavera.

8 Dic

L’adolescenza che non mi riesce a passare complica inevitabilmente le cose.

Mi sforzo di crescere verso l’alto, e invece sboccio solo in larghezza come un semplice arbusto di rose.

Occupo uno spazio che non è il mio, che mi sento più ampia e più alta come una casa sulla montagna.

Ma ho solo un monolocale di un metro e sessanta nonché la genetica meschina e compagna.

Fatico ad accettare il corpo che corre più della mia mente.

Per questo mi sforzo tantissimo: anche se a volte faccio troppo e a volte niente.

Per la prima volta in vita mia scrivo qualcosa in rima.

Ammetto che mi dà gusto anche senza la voce piccata e sarcastica che trovi invece in tutti i post prima.

P.s.
No, non è vero.
Mi preferisco Selvaggia.

Tranquilla come il Vesuvio una mattina del 79d.C.

7 Dic

La bambina catarrosa con la tosse da fumatore incallito e sua madre che non ha nessuna intenzione di coprile la bocca.

Il “manager” over 50 che urla al telefono cose del suo lavoro convinto di risultare attraente.

Il tipo di fronte che mi guarda tipo Jeffrey Dahmer. (Ora mi chiede se voglio una birra)

Il distributore di schifezze al vagone 3 che smette di distribuire proprio al momento del mio turno. (Un attimo, questo è un bene)

Il minchia che cerca di infilare una valigia enorme nella cappelliera minuscola e nel farlo mette il culo in faccia a tutti.

Il minchia che si siede in un posto che non è il suo e crea un tappo all’arrivo dei legittimi occupanti.

Il minchia. Punto. (Evergreen per ogni situazione)

La voce registrata che fa sapere a tutti che qualcuno sta utilizzando il cesso.

Quello di fianco che si abbandona a funzioni fisiologiche dall’ingombro olfattivo troppo importante per lo spazio circostante.

La morte della Pianura Padana che scorre fuori dal finestrino.

Che bello viaggiare in treno!

©STORIE SELVATICHE

C'ERA UNA VOLTA, UNA STORIA SELVATICA...

Franaglia loimmaginocosì

Se ti senti sbagliato non è il posto giusto.

Il mio viaggio

I viaggi della vita attraverso il lavoro, il cibo, i luoghi, le curiosità, la musica, le esperienze vissute e attuali, un viaggio nel tempo in continua evoluzione.

ORME SVELATE

la condivisione del dolore è un dono di amore da parte di chi lo fa e di chi lo riceve

LaChimicaDelleLettere

Reazioni a catenella

HUMOR STORIA

Sorridi con la storia

SENZ'AZIONI

Qui sensibilizzo la mia immaginazione.

Supernova Burning Soul

Tra asfalto, cenere e luccicanza

marisa salabelle

Quando finalmente i vigili del fuoco ebbero sfondato la porta, l’odore, che fino a quel momento era filtrato attraverso gli spiragli, si diffuse per tutto il pianerottolo. La signora Lotti, che abitava nell’appartamento di fianco, fece un passo indietro; i volontari della Misericordia entrarono con la barella; Lorella strinse il braccio di suor Maria Consolazione.

Ettore Massarese

un navigatore cortese

Il Mondo di Dora Millaci

Sono le parole semplici quelle che giungono al cuore e donano emozioni

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Nel cuore delle veglie della luna - Joyce

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Un piccolo giro nel mio mondo spelacchiato.